Prima il liberismo economico, poi qualcosa va storto, ed ecco il neoliberismo. Il libero mercato in vecchie e nuove forme.
Liberismo economico. Gli effetti positivi e negativi rivelati dal tempo. L’evoluzione socioeconomica. Proviamo a trovare qualche filo rosso per una sintesi finale. Per capire.
Un paio di presupposti, per cominciare.
Primo. Occorre una visione dall’alto degli eventi: sollevarsi dalla quotidianità del “qui ed ora” e unire la loro lettura in una prospettiva di lungo periodo.
Secondo. Occorre mantenere una visione larga dei fatti, non limitata al proprio orticello.

Solo così si riescono a cogliere i fili rossi che li legano.
E allora, proviamoci. Il liberismo economico, l’idea di libero mercato, hanno accompagnato il mondo in uno sviluppo significativo per entità, diffusione e durata. Poi si è incrinato qualcosa.
In Occidente, finita la seconda guerra mondiale, c’è stata la fase di ricostruzione, il recupero di quanto distrutto e poi lo sviluppo. Il tutto ispirato più che altro alle teorie di John Maynard Keynes, favorevoli ad un maggiore intervento dello Stato in economia.
Poi negli anni Settanta, assieme alla crisi petrolifera, entra in crisi quel modello e allora si ritorna al passato, alla già ben nota idea di libero mercato. Ecco perché si dice neoliberismo.
Si critica aspramente lo Stato, ritenuto incapace di operare bene per l’interesse collettivo. ‘L’economia – dicono – sarà stabile purchè venga lasciata a se stessa e sia governata il meno possibile dallo Stato‘.
Per Keynes era necessario sostenere la domanda (chi compra) anche attraverso l’azione dello Stato. Per i neoliberisti è necessario sostenere l’offerta (chi vende), senza vincoli di alcun genere, poi tutto si aggiusta da solo.

Il neoliberismo vince, lo sviluppo socioeconomico si rafforza e si consolida. Diventa modello di riferimento incontrastato. Teorie, esiti brillanti: ricordiamo la data simbolo del 1989. Sono decenni di storia, ecco la necessità di una visione lunga per capire.
Tutti si sono allineati, Stati, organismi internazionali, intellettuali. Un processo costante nel tempo, anche indipendente dal colore politico dei governi che si sono alternati nei vari paesi in Occidente (destra o sinistra, conservatori o riformisti, poco importa).
Ronald Reagan e Margaret Thatcher (ricordate TINA? There Is No Alternative) come i primi significativi esempi di messa in pratica. Scelte politiche precise basate su ideologie precise; l’assoluta razionalità delle scelte di ogni soggetto economico; il mercato lasciato libero raggiunge gradualmente nel tempo il suo punto di equilibrio in cui tutti trovano beneficio; gli effetti del libero mercato calano dall’alto verso il basso della scala sociale, è solo questione di tempo; la minor presenza possibile dello Stato. La crescita economica è costante su questi presupposti (e altri).
Ecco, non è successo propriamente così. O almeno è successo fino a un certo momento. Lo dimostrano impressionanti quantità di studi di alto profilo in ogni parte del mondo. Anche se c’è chi li sminuisce o li contesta, come sempre.
Oggi abbiamo di fronte una realtà differente da quella prospettata e “promessa”. Il neoliberismo è parso contenere in sé le avvisaglie per la sua messa in discussione.
La crescita si è quasi fermata, pandemia a parte. Eccessiva finanza, di fatto con pochissime regole e limiti. La disuguaglianza è esplosa, ma c’è chi sostiene che non è problema di cui debbano occuparsi gli economisti.

Si sono fatte precise scelte politiche in ambito fiscale: meno tasse alle fasce di popolazione più ricche, perché così possono investire le risorse liberate in attività (e consumi) i cui benefici dopo ricadono su tutti. Così veniva detto.
Negli Stati Uniti la pressione fiscale sulla fascia più ricca della popolazione è stata ridotta gradualmente dal 70% degli anni Sessanta (ma prima era stata anche al 90%) al 35% circa di ancora oggi. Sul presupposto appunto che tagliare le tasse promuove, accelera la crescita. Gli studi dimostrano che nel lungo periodo non c’è stata alcuna modifica significativa del tasso di crescita. Il salario medio dei ruoli non dirigenziali nel 2014 è di fatto lo stesso del 1979, o addirittura più basso per i lavoratori meno istruiti.
Ma non ci sono stati interventi pubblici di ridistribuzione dei redditi, considerati dal pensiero liberista come fumo negli occhi.
Pure per questo la disuguaglianza è aumentata fortemente. E anche, ovviamente, per altri fattori: commerci internazionali, innovazione tecnologica e digitale, altro.
I più penalizzati sono i ceti più bassi, i lavori meno qualificati, spesso le donne, i paesi e le aree a prevalente economia reale (le fabbriche, la produzione) e non quelle a economia finanziaria (i mercati dei capitali).
Guarda caso sono esattamente gli stessi che la pandemia ha colpito più duramente.
In Europa la situazione è certamente meno estrema, ma i trend sono gli stessi. La Brexit lo dimostra. Al di fuori dell’Occidente sappiamo che le cose sono andate diversamente.
La paura per il futuro si fa strada, e diventa rabbia. Cova e prima o poi esplode. Anche perchè questi effetti negativi risalgono la scala sociale e intaccano sempre più le classi medie.

Così si diffondono nel mondo movimenti e governi populisti che promettono, con semplici formule “magiche“, la soluzione dei problemi che sono invece tanto complessi. E orientano l’attenzione verso bersagli precisi (è facile parlare alla pancia e alle emozioni), indicando sempre un nemico in carne ed ossa: qui George Soros o Bill Gates, là il migrante, come origine di ogni male.
Una cosa è certa. E chi conosce la storia lo sa bene. Le forti disuguaglianze hanno sempre portato a sconvolgimenti sociali, in un modo o nell’altro.
I presupposti ideali del neoliberismo, su cui si è fondata tanta parte delle scelte politiche degli ultimi decenni, oggi dunque mostrano la corda.
La realtà sta dimostrando altro rispetto a quello che si sosteneva dovesse accadere.
Le condizioni socioeconomiche in occidente oggi non sono esattamente quelle che ci si sarebbe aspettati, leggendo tanti articoli e libri di quella scuola di pensiero, anche assai recenti. Tante volte ancora oggi si sente dire: lasciate i mercati totalmente liberi di fare, tutto si risolverà.
Non esistono leggi economiche scolpite nel marmo che ci impediscono di costruire un mondo più umano, ma ci sono tante persone che per fede cieca, interesse egoistico o semplice ignoranza della scienza economica sostengono che è così.
Abhijit Banerjee – Esther Duflo (Premi Nobel Economia 2019)
La sensazione è che spesso ci si trovi di fronte a economisti innamorati delle formule matematiche. Fanno razza a parte, considerano l’economia come qualcosa di separato dal resto, che funziona con le sue regole indipendentemente dal mondo attorno. Che non deve allargare la visione tenendo conto delle altre scienze sociali. Non è così, lo studio dei fenomeni specie di questi ultimi anni indica il contrario.
In tanti ormai sostengono che sia necessario un rilevante ripensamento del modello economico che ci ha portato fin qui. Questa consapevolezza include la sostenibilità, ambientale ma anche sociale.
Come ha detto qualcuno, ‘…il PIL non dovrebbe essere un fine ma uno strumento…’, il cui scopo deve essere quello di aumentare la qualità della vita per tutti, non solo per alcuni.
Diffidiamo da chi dice che l’economia non è politica. Lo è sempre.
“…il tema è quello delle basi ideologiche di ogni tipo di pensiero economico: ciò che di frequente è presentato come realtà oggettiva, o come soluzione tecnica e senza alternativa di un problema (quasi le regole dell’economie corrispondessero a quelle delle scienze naturali), ha una matrice politica, si fonda su una specifica visione della società e dei valori che dovrebbero guidarla.”
Gianrico Carofiglio
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